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Il “caso” Giuseppe Rovella
giovedì 9 febbraio 2017
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"Caro Rovella, ho letto con interesse il suo romanzo, attirato dalla originalità della sua tematica e dalla tensione religioso-visionaria che lo attraversa. Al tempo stesso non sono rimasto sempre persuaso dall’incontro di realistico e di fiabesco, di trascendente e di quotidiano attraverso il filtro di una scrittura come la sua che è piana, discorsiva, trasparente, di pregevole linearità e limpidezza, ma che rischia di diluire la ricchezza dei temi in una consapevolezza troppo analitica". E’ Giuseppe Pontiggia, a scrivere di proprio pugno questa lettera esattamente trent'anni fa nel febbraio del 1987, nella quale “con franchezza” dice di ritenere uno degli ultimi scritti di Giuseppe Rovella, Vita di Gesù, “un testo meritevole di particolare attenzione editoriale, ma non sufficiente per il gusto di Adelphi o di Mondadori”. Una stroncatura. Una delle tante ingiustamente subite dallo scrittore-filosofo di Palazzolo Acreide stroncato a sessantatré anni da un infarto il giorno di Pasqua ( a proposito, perchè non intitolargli il Liceo classico di Palazzolo dove Rovella formò per tanti anni centinai di studenti, molti dei quali sono oggi insegnanti e professionisti, con tutto il rispetto per il grande Platone?). Fu un percorso sempre controcorrente quello di Rovella, un vero "caso letterario", come dimostra l’esame della ricca corrispondenza con il mondo accademico e culturale italiano dell’epoca. Centinaia di lettere, lunghi carteggi epistolari, totalmente inediti, che lo stesso Rovella mi consegnò poco prima di morire. Sorprende il rapporto con il filosofo Ugo Spirito con cui Rovella intavola una lunga corrispondenza fin dal 1973 , subito dopo la pubblicazione del suo primo saggio “Un uomo, una filosofia”. Spirito era a Roma tra i principali filosofi de "La Sapienza" insieme a Carlo Antoni, allievo di Benedetto Croce, Guido Calogero, filosofo del "dialogo" e Bruno Nardi grande studioso di filosofia dantesca e medievale. Era diventato celebre anche per i suoi pomeriggi di discussione del giovedì. Tre ore, non di lezione, ma di confronto serrato su un problema filosofico nell'aula grande dell'Istituto di Filosofia dove intervenivano gli studenti, i numerosi assistenti ed intellettuali di varie età, convinzioni e provenienze. “Caro Rovella, la prima constatazione da fare è quella del riconoscimento della sua vena speculativa, della sua chiarezza espositiva, della fluidità del suo discorso",scriveva nel marzo del 1974 su carta intestata Accademia dei Lincei. "Il suo nuovo libro "Debeb" merita di essere pubblicato, anche se io non sono affatto d’accordo con lei perché il suo punto di vista è metafisico, una teoria dell’intelligenza e una apologia dell’uomo nuovo sono totalmente fuori dal problematicismo”. In effetti, lo scrittore palazzolese aveva colto lo smarrimento spirituale dell’uomo moderno già nei primi anni settanta. Si stava lentamente staccando dal materialismo marxista e proprio con il secondo romanzo "Deneb " (pubblicato poi da Salvatore Sciascia e selezionato nel 1985 per il Premio Strega) aveva scoperto che il suo amore per la natura aveva una radice religiosa, aveva ritrovato "razionalmente" il valore della Sacralità e della Tradizione. "La Fattoria delle Querce e Deneb rappresentano forse la vetta della sua bergsoniana evoluzione creativa", argomenta il critico d'arte Francesco Gallo che di Rovella era conterraneo ed amico. Rovella era avanti di vent’anni rispetto ad altri importanti intellettuali siciliani della sua era. Temeva la globalizzazione e le mescolanze genetiche, paventava il rischio della laicizzazione della società, cercava una terza via alla crisi esistenziale del mondo moderno. Fu tra i primi a comprendere le conseguenze dello scontro tra la cultura consumista del mondo occidentale e l'avanzata dell'islamismo. Criticava l’<> culturale di Antonino Uccello e definiva Giuseppe Fava <>. Era un personaggio spigoloso, un aristocratico della scrittura, attento agli aggettivi e al ritmo della pagina, si opponeva alle lusinghe del relativismo, alla decadenza culturale dei costumi della società contemporanea, quello che lui definiva il “neoilluminismo razionalistico”. Concetti forti. Un percorso culturale coerente ma costellato da giudizi approssimativi e poco lusinghieri di alcuni critici letterari, come Giuseppe Prezzolini che nel 1976 gli aveva scritto in un biglietto: “Posso assicurarle che leggerò il suo libro, anche se non ho l’età, il tempo, la voglia”. Ma Rovella andava dritto per la sua strada, incoraggiato da altri intellettuali liberi come Cinzia Donatella Noble o Guy Tosi, quest'ultimo professore emerito di letteratura italiana all'Università della Sorbona. “Finalmente ho potuto leggere La fattoria delle Querce. E’ un romanzo di una eccezionale ricchezza descrittiva. Si avverte l’opera lungamente maturata, un mondo visto con gli occhi e vissuto interiormente da filosofo e da artista. Dopo tanti libri sulla Sicilia (fino a Sciascia o a Bonaviri) il suo va a dirci qualche cosa di nuovo, in un linguaggio nuovo”. Era la rivalutazione di una Sicilia solare, arcaica, esplosione di fermenti dionisiaci, “godimento delle forze vitali”, come ebbe da annotare più tardi Emanuele Messina. “L’Europeità della Sicilia non può essere che la sua medesima memoria indoeuropea e mitica. Dolorosamente provata in secoli di dominazioni e violenze, ma che ha conservata intatta la propria essenza e i caratteri di universale insularità”, scriveva Rovella in "Quattordici Punti su cultura e letteratura di Sicilia oggi”, un saggio del 1988 che rappresenta, forse, il suo testamento culturale, in cui demolisce il “Sicilianismo linguistico”, alla Camilleri per intenderci. E' netta la sua opposizione intellettuale a “weltanschauungen di qualsiasi specie, dalle quali possa discendere una visione antieuropea, promiscua e invertita delle nostre, sia pur lontanissime origini…” Una visione lucida non scontata della Sicilia che condusse Rovella nell’aprile del 1987 a proporre al Consiglio Comunale di Palazzolo Acreide (“la più storica tra le Palazzolo d’Italia”) un gemellaggio con la città americana di Wichita nel Kansas a cui aveva intitolato il suo ultimo lavoro (I Colloqui di Wichita). Una proposta, inutile dirlo, cestinata e caduta nel dimenticatoio. La Sicilia 9 febbraio 2017
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