Il Codice da Vinci? Un grande bluff. Parola di Pippo Corigliano, lo storico ”portavoce” dell’Opus Dei
giovedì 13 novembre 2008
“Nel libro, il killer era un monaco in saio dell’Opus Dei, a dispetto del fatto che non esistono monaci nell’Opera. Se fosse stato nel seicento, avrebbero scelto i Gesuiti”, ironizza da buon napoletano Corigliano. “E’ chiaro che le realtà attive della chiesa, e soprattutto quelle nuove, colpiscono la fantasia dei contemporanei. Nel grande minestrone, dove c’è di tutto, i Templari, Leonardo da Vinci, Maria Maddalena, anche l’Opus Dei ci stava benissimo. Ma in un certo senso, ci ha fatto un gran favore. Abbiamo colto l’occasione per parlare di più dell’Opera”. D. Ma allora come si spiega tutta questa diffidenza nei confronti dell’Opus Dei? “Per anni abbiamo raccolto incomprensioni e insinuazioni spesso malevole senza un ragionevole perché. Ma la nostra trasparenza è stata costante. E’ evidente che la cultura dominante tollera tutto, ma guarda con freddezza chi ha fede in Dio. Ed è altrettanto evidente che l’Opus Dei parla di fede. E’ una parte viva della chiesa cattolica e il suo messaggio si rivolge a chi opera nella società. Eppure i media ci hanno sempre chiesto soltanto l’elenco dei finanziatori dell’Opus dei. Nessun interesse su quale fosse l’originalità del messaggio dell’Opera. I giornali ragionano sempre secondo le coordinate cartesiane dell’economia e della politica. Noi ragioniamo in una terza dimensione che è quella del rapporto con dio. E abbiamo sempre cercato di farlo capire.”. D. Qual è stata la vostra reazione al libro di Brown in cui, tra l’altro, si dice che Gesù ha sposato la Maddalena? R.All’inizio convenimmo di non rispondere né polemizzare. Ma dopo il film, devo dire un po’ noioso, di Ron Howard, si sono accessi i riflettori su di noi. In America, lo stesso editore del Codice da Vinci, ha fatto scrivere un altro libro a un giornalista, John Allen, un liberal, a lungo scettico sull’Opera, che si è fatto un viaggio per il mondo ed ha intervistato centinaia di persone dell’Opera. E ne ha tracciato un ritratto “simpatizzante”, come ha annotato Gianni Riotta. E’ diventato un grande ammiratore dell’opera, forse perché ha toccato con mano la vera identità dell’Opus Dei”. D. Subito dopo anche lei ha scritto un libro che fa discutere (Un lavoro soprannaturale. La mia vita nell’Opus Dei, Mondadori)nel quale ha raccontato come un ragazzo “spensierato”, che amava le auto veloci e le donne, abbia rinunciato a tutto, matrimonio compreso, per seguire la sua vocazione, da laico, nell’Opera. Perché lo ha fatto ? R. Ho cercato di raccontare come ho incontrato, assorbito ed ho tentato di comunicare in quasi quaranta anni di attività il messaggio dell’Opus Dei. Credo che l’esperienza personale aiuti meglio a capire il “segreto” dell’Opera. D. E allora qual è questo “segreto”? R. L’intento dell’Opera è risvegliare lo spirito dei primi cristiani. Questi erano gente comune toccata da un messaggio straordinario che la rendeva capace di cose altrettanto straordinarie: generosità, dinamismo, laboriosità. Una fede operativa, insomma. L’Opera non fa altro che portare avanti la dottrina sociale della Chiesa. Aiutare chi vive in questo mondo ad amare Dio e gli altri nel lavoro di ogni giorno e nelle circostanze ordinarie. D. Che cosa pensa della finanza “creativa” che tanta responsabilità ha nel tracollo del sistema bancario di queste settimane? R.C’è stato un effetto perverso della finanziarizzazione dell’economia. E’ evidente che non si è tenuto conto delle conseguenze. Se uno costruisce un’attività basata esclusivamente sul movimento di denaro, è chiaro che quei denari non vengono “bruciati” come si dice, ma vengono sfilati dalle tasche dei poveri e messi nelle tasche dei ricchi. Perché il denaro nessuno lo brucia. Non è un liquido che si volatilizza. Quindi ci sono delle situazioni di vera ingiustizia, cui un cristiano deve reagire. Questo riguarda tutti i cristiani. Non è la dottrina dell’Opus dei. D. Eppure non può negare che tanti uomini della finanza fanno parte dell’Opus dei? R. Non lo nego. Il problema è vedere il rapporto personale che si ha con la ricchezza. Il denaro è un bene che deve fruttare altro bene. La ricchezza può diventare uno strumento per restituire quell’ipoteca sociale che esiste in ogni rischio d’impresa. Il lavoro è, in fondo, la continuazione della creazione. D. Lei parla di lavoro. Ma qual è il vostro rapporto con le associazioni che organizzano proprio il mondo del lavoro, come il sindacato per esempio? R. Ci sono diversi sindacalisti nell’Opus dei in tante città italiane. Ma noi non facciano un discorso settoriale, di categorie. Escrivà lo diceva sempre: a noi interessano le persone. A una a una. D. Alcuni vostri detrattori sostengono che l’Opus Dei abbia anche finalità politiche? R. L’Opera tende a insegnare a cercare Dio. Cerca di portare questo senso di responsabilità del laico anche nella funzione politica. Non è necessario un partito cattolico, proprio perché Gesù ha detto il mio regno non è di questo mondo. Chiaramente ci sono situazioni eccezionali. Penso al 1948, quando i vescovi mobilitarono le folle. Ma il fondatore dell’Opera disse, già allora: state attenti perché questo va bene adesso, ma non può continuare perché sarebbe clericalismo. L’Opus Dei come la Chiesa non fa parte con la parte, non entra nei partiti. La professoressa Binetti, numeraria, non ha chiesto il permesso a nessuno di candidarsi col centrosinistra. E lo sapeva bene anche Alberto Michelini quando faceva politica. D. Perché c’è bisogno dell’Opera nel mondo? R. Nel mondo c’è uno squilibrio fortissimo tra Nord e Sud. Una ricaduta sociale del lavoro dell’Opera è quella di umanizzare l’occidente e professionalizzare il Sud del mondo. Non solo avvicinare le singole persone a Dio. I membri dell’Opera danno vita a una serie di iniziative che sono sempre educative, dal Messico al Cile, in tanti paesi africani, nelle Filippine. E anche nelle periferie delle grandi città ci sono tante iniziative di tipo professionale. Ho letto una bella intervista a un contadino del Guatemala. Lui dice: prima di essere dell’Opus Dei, i soldi non mi bastavano ed ero solo. Adesso sono sposato, ho i figli e i soldi mi avanzano. Perché grazie all’Opera ho messo su un allevamento di polli. Un po’ paradossale, ma eloquente. D. Che cosa pensa quando vede la sua città Napoli ridotta a una specie di girone infernale? R. Quando parlo di Napoli, rischio di commuovermi. Io fremo. Non voglio fare il borbonico, ma Napoli è una città che è stata mortificata dal 1860 in poi. Ha subito un trauma di cui nessuno si è fatto carico. Noi avevamo cominciato negli anni sessanta una bellissima attività a Forcella che è il cuore di Napoli persino dal punto di vista olfattivo. Entrare a Forcella in quegli anni era un trauma: si stava male. Poi dopo ti adattavi. Avevamo affittato due appartamenti in cui aiutavamo i ragazzi a raggiungere il diploma di terza media. E portavamo i giovani di altri quartieri a fare da tutor a questi ragazzi. Si faceva tanto sport e anche delle gite. Molti di quei ragazzi non avevano mai visto il mare. Una cosa inconcepibile a Napoli. Esisteva una certa morale perché c’era grande rispetto reciproco e un ordine sociale. Non c’era l’anarchia dei quartieri nuovi dei palazzoni di Scampia. Nell’ottanta, dopo il terremoto si è fermata quell’attività e poi non ci sono state le necessarie energie per riprenderla. Prima o poi bisognerà rilanciare quel progetto. Napoli è una miniera umana. Bisogna partire dalle persone. Basta piantare una piantina e l’orgoglio dei napoletani fa il resto”. Conquiste del lavoro - 11 novembre 2008 |
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