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Ora i "Santoni" di Palazzolo hanno un volto
mercoledì 30 gennaio 2008
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Resterà sempre uno dei misteri più affascinanti dell’ archeologia siciliana. Finora nessuno è riuscito a decifrare pienamente il significato iconografico dei “Santoni” di Palazzolo Acreide. Il sito si trova in un costone proprio a ridosso dell’antica città greca di Akrai. Lungo un sentiero, si trovano dodici grandi figure scolpite nella roccia, dieci delle quali riproducono la medesima figura femminile, mentre gli altri due contengono scene più complesse, con una pluralità di personaggi. Un enigma che ha sempre affascinato uno scultore siciliano, Enzo Nieli, il quale ha realizzato sul legno, quasi a grandezza naturale, la serie completa dei “Santoni”, dandone una versione che si accosta molto da vicino alle loro condizioni primitive, sulla base dei rilievi di un grande archeologo, Luigi Bernabò Brea. Le riproduzioni lignee sono state esposte recentemente in una mostra, molto apprezzata dai visitatori, nel palazzo di città di Palazzolo Acreide. Nieli è un autentico artista-artigiano. Un palazzolese “doc” che non ha mai lasciato il suo paese. E’ discendente diretto di quella genìa iblea, greca e contadina, tanto cara ad Antonino Uccello(che proprio a Palazzolo fondò la sua famosa Casa-Museo). In tutte le opere di Nieli ci sono i cicli delle stagioni, la fatica del lavoro dei campi e della bottega, il dramma ed il mistero della Sicilia di Verga e di Capuana. Si è nutrito, contaminato, quasi per osmosi, della stessa linfa vitale che aveva illuminato, piu di duemila anni fa, l’ ignota mano creativa dei Santoni. Il risultato è davvero straordinario. Grazie all’opera di Nieli, oggi possiamo apprezzare, anche nei piccolo dettagli, tutta la magia, l’armonia, il fascino di quelle antiche sculture. Archeologia, tradizione popolare ed arte si fondono in una sorta di magico viaggio metaforico, quasi didascalico. Gli studiosi sostengono che quello di Palazzolo Acreide sia il più vasto e complesso santuario dedicato al culto della dea Cibele, quella che i romani chiamarono la “Magna Mater”, la grande madre di tutti i viventi, protettrice della fecondità, signora degli animali e della natura. La sua venerazione era accompagnata da un corteo orgiastico, con danze sfrenate al suono di flauti, timpani e cembali ed estasi deliranti, durante le quali i sacerdoti si flagellavano e arrivavano ad auto evirarsi.

Il centro principale del culto di questa divinità orientale della fecondità era Pessinunte, in Turchia, da cui passò,approssimativamente nel VII secolo a.C., nelle colonie greche dell’Asia minore e, successivamente,nel continente, fino ad arrivare nel IV secolo a. C. a Siracusa. Ed è probabile che dai siracusani sia stato introdotto alla fedele colonia di Akrai. Sotto l’influenza greca, il culto perse molte delle sue caratteristiche barbariche, che riaffiorarono in epoca ellenistica. Anche nei “Santoni” di Palazzolo Acreide, la Magna Mater è assisa in trono, una lunga veste che cade da una spalla, gira intorno alla vita e scende oltre i ginocchi, i capelli che ricadono intrecciati sulle spalle e sul petto, la mano destra regge una patera e l’altra un timpano, una specie di tamburo. Ai lati del trono o nella scena, sono sempre rappresentati uno o due leoni, animali sacri alla dea. Ai fianchi, ora in alto, ora in basso, ci sono divinità minori oppure coricanti, sacerdoti della dea. Nella scultura più grande del complesso, Cibele è rappresentata in posizione stante ed a grandezza naturale; da un lato vi è Hermes e dall’altro Marsia ed una non identificata figura femminile. Chiudono la scena, da ambedue i lati, due cavalieri, i Dioscuri.

Purtroppo il grado di conservazione delle sculture è oggi pessimo. Il motivo è inverosimile: le statue furono volutamente danneggiate negli anni cinquanta, a colpi di piccone, da un contadino che mal sopportava le continue presenze dei tanti visitatori. Ma pur essendo rovinate, le figure mantengono un fascino particolare, forse collegato alla suggestione del luogo ed all’enigma che circonda ancora questi reperti.

“Un monumento singolarissimo, di grande interesse per la storia delle religioni del mondo antico,espressione di un culto e di una rappresentazione popolare”, scrisse nelle sue varie pubblicazioni, Bernabò Brea. In effetti, bisogna immaginare queste figure – oggi rovinate e sbiadite – colorate ed adornate con corone bronzee o auree, con bracciali più o meno preziosi (i fori praticati a fianco delle teste e delle braccia a ciò servivano), ed altri adornamenti di stoffe e di serti di fiori o di querce o di pini. Un po’ come accade ancora oggi in Sicilia in occasione delle feste religiose dei Santi patroni. Riti arcaici, suggestivi, che si ripetono, senza soluzione di continuità, nelle tradizioni popolari della nostra terra. Tra sacro e profano.
"La Sicilia"- 30 gennaio 2007

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