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Anche Pantalica, in Sicilia, finalmente è tra i "Patrimoni dell'Umanità", tutelata dall'Unesco. Il sogno di Luigi Bernabò Brea si è avverato.
lunedì 14 novembre 2005
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Pantalica è lo sperone di montagna sul quale sorgeva il più vasto, il più appariscente, il più oscuro fra gli abitati della tarda età del bronzo. E' l'ultima arrivata tra le quaranta località italiane tutelate dall'Unesco come "patrimonio dell' umanità". Ma è ancora la più misteriosa. Le popolazioni che si erano rifiugiate in quella fortezza naturale, dove nasce l’Anapo, avevano scavato nella pietra le loro abitazioni, accanto alle tombe dei defunti. Lame, fibule, catenelle, armi, specchi di metallo si trovano ora, in gran parte, nel museo di Lipari. Le bianche pareti di Pantalica sono rimaste con gli occhi vuoti. E ciò contribuisce a tenere sempre vivo il giallo intorno a questa fortezza naturale. Intorno agli anni ’50, alcuni archeologi avanzarono la supposizione, sulla base del contestato passo di Stefano Bizantino, che la Ibla più antica, la "Megarese", andasse ricercata non più a Melilli, ma proprio tra le cinquemila tombe di Pantalica. Una ipotesi realistica che è stata confermata trent'anni dopo da Luigi Bernabò Brea, il grande archeologo genovese, scomparso a Lipari nel febbraio del 1999. Bernabò Brea era stato Soprintendente alle antichità della Sicilia orientale dal 1941, dove si concentrò la fase più impegnativa ed insieme creativa della sua vita, con il rifacimento del Museo di Siracusa, dei grandi teatri, la scoperta di siti oggi celebri non soltanto per gli specialisti, e la creazione del Museo di Lipari. Ma è su Pantalica, la "città dei morti", che si era concentrata, per tanti anni, la ricerca di Bernabò Brea, sempre attento a ricavare un esatto quadro della situazione delle culture succedutesi in epoca pre greca in Sicilia. Circa dieci anni fa, nel giugno del 1986, Bernabò Brea decise di tornare, a sorpresa, sulle balze scoscese dove sorse l'antica Ibla. Fu in quell' occasione irrepetibile che l'archeologo chiarì alcuni aspetti importanti sull' origine del sito di Pantalica. Quel giorno merita di essere raccontato, perché è rimasto indelebile nella mia memoria ed in quella degli studiosi dell'Istituto Studi Acrense di Palazzolo Acreide.
Il grande archeologo genovese, arrivò quasi saltellando sul sentiero che conduce ai ruderi dell’Anactoron, l’antico palazzo megalitico di Pantalica. Bernabò Brea era un uomo schivo, riservato, alieno da inutili protagonisti. Il suo volto era rossiccio, e su di esso si stagliava un naso borbonico a gronda sulla bocca. All'epoca aveva settantasei anni. Ma era un uomo con la salute di ferro che, come gli ulivi, si asciugano facendosi sempre più nodosi e risentiti. Alla vecchiaia non aveva concesso che i capelli. Ne aveva, in verità, ancora qualcuno arrampicato sull’ultimo lembo del cranio che, ogni tanto, anche gli s’arruffava. Tutti gli altri avevano lasciato il cranio lucido e tirato alle sopracciglia, che sembravano ciuffi di bosco a custodia degli occhi azzurri. Non era alto, ma lo sembrava per via del portamento eretto e dell’agile passo. Bernabò Brea, infatti, non camminava per i siti archeologici. Correva, correva come un giovane cerbiatto. “La prima volta che sono venuto a Pantalica era il 1942. Ero stato nominato sovrintendente a Siracusa da pochi mesi", cominciò a raccontare. "Ricordo che si arrivava qui, ma non si sapeva assolutamente dove andare in tutta questa immensa pietraia. Poi, con un piccolo contributo della cassa per il Mezzogiorno, abbiamo fatto questi viottoli, per poter raggiungere le tombe che erano state esplorate dall’Orsi”.
Intanto che parlava, si era accostato al palazzo del principe, sedendosi delicatamente su un grosso blocco di pietra. Sistemò con cura la borsa sulle gambe, poi tirò un gran respiro come se volesse incamerare nei polmoni tutta l’aria della zona. “Questo blocco sul quale sono seduto appartiene al palazzo del principe, l’Anactoron. Quando siamo arrivati qui, era da ben settant’anni ricoperto da una boscaglia. L’Orsi lo aveva scoperto nel 1895 e sosteneva che non fosse stato costruito da tecnici locali, ma da maestranze micenee. E io sono dello stesso parere. Non ci sono edifici di questo tipo nelle nostre parti, mentre li troviamo in Grecia, in tutti i palazzi micenei, dello stesso periodo. Per pagare questa "importazione" di tecnologia nel ramo dell’edilizia, qui c’è stata probabilmente una esportazione di schiavi, che erano il prodotto più a buon mercato per effettuare un baratto. Erano il petrolio dell'antichità!
Il palazzo – proseguì Bernabò Brea – dovrebbe essere stato costruito alla fine del regno di Pantalica, perché abbiamo trovato della ceramica a traslucido rosso, che rappresenta un progresso tecnico rispetto alla più antica ceramica grigia ,dello stile di Tapsos. In età bizantina, poi, doveva essere ancora in buona conservazione, tanto che lo hanno ricoperto con un tetto e delle tegole, probabilmente a travatura scoperta. Non sappiamo, però, quale fosse l’elevato, perché mancano del tutto le tracce. Se fosse stato costruito con pietre di grosse dimensioni, qui dovrebbe esserci una montagna di blocchi. Io mi domando se la parte superiore non fosse stata in una struttura molto diversa. In mattoni crudi o in pietra minore”. Pausa. “Ma adesso venite con me- riprese con uno tono quasi eccitato - non perdiamo altro tempo, voglio svelarvi il motivo per il quale oggi sono tornato qui, a distanza di vent’anni”. Era scattato in piedi come una molla, dopo aver consegnato con delicatezza la borsa alla moglie. “Gigi – riuscì a dire lei – c’è vento! Vuoi la giacca?” Ma lui fece finta di non aver sentito e scomparve in un sentiero scosceso. Lo seguimmo titubanti per quel viottolo che scendeva giù per il costone. Non riuscivamo a scorgerne la sagoma. Sentivamo solo la sua voce forte, con quella rumorosa ‘erre’ moscia alla genovese che s’infilava e scandiva il ritmo delle sue parole. Lo ritrovammo , chinato su un piccolo blocco di pietra, pensieroso. “Quando facemmo gli scavi, assieme alla Cristina Bolognari, una ragazza di Taormina, scoprimmo qui intorno, degli strani allineamenti di blocchi. Sono convinto che si trattasse delle rovine di un piccolo santuario di età greca, forse del IV secolo a.C. Purtroppo, a suo tempo, non fu possibile studiarlo e così non è stato mai rilevato. Ora non so che cosa se ne vedrà a tanti anni di distanza in mezzo alle erbacce. Ma tenteremo insieme di individuare alcune tracce di quel tempio perduto”.
Rimanemmo tutti senza fiato, a deglutire quella frase: "tempio perduto". Ci si muoveva male in mezzo a quegli enormi spinosi cespugli che tappezzano tutta la vallata di Pantalica.
Il paesaggio che si gode da quella rupe è stupendo: da una parte la vallata profondissima e scenografica dell’Anapo e di un suo minore affluente, il Calcinara; dall’altra, il percorso romantico e sinuoso dell’ex strada ferrata che, una volta, collegava Siracusa a Vizzini in una serie interminabile di gallerie. Poi, fu lo stesso Bernabò Brea a farci notare degli strani blocchi squadrati, posti a filari, che risalivano a terrazza la vallata. Le sue pupille si illuminarono. In un silenzio irreale, il grande archeologo, con in mano un lapis e un blok-notes, improvvisò una straordinaria lezione di storia di archeologia.
“Siamo sopra le rovine del tempio. Vent’anni fa ci siamo accorti che c’erano queste tre mura che sostenevano due grandi terrazze sulle quali si affacciava il santuario, al quale si accedeva per una stradina laterale. Questo luogo sacro non aveva per niente la forma di un tempio greco, ma doveva essere simile a quello che abbiamo trovato nell' antica città di Eloro. Era probabilmente dedicato a Demetra, con delle camerette nelle quali si facevano dei sacrifici all’aperto e poi si conservavano gli ex-voto: terracottine, statuine. Simili a queste, potete vederle nel Museo di Noto, ve ne sono una quantità enorme. Quando Pantalica fu distrutta dai Siracusani, all’incirca verso il 700 a.C., il culto della divinità protettrice della città rimase. I Siracusani se la prendevano con gli uomini, non con gli dei. Anzi stavano attenti a non offenderli. Credo che questo sia stato un santuario agreste che continuava il culto delle divinità della città preistorica." Si interruppe, ma solo per un attimo. Bernabò Brea cominciò a frugare tra le sue mappe,ingiungendoci di non approfittare di quella interruzione per prendere la parola. Poi, quella incredibile e inaspettata lezione ricominciò.
"Io sono più che convinto che Pantalica sia la vera e leggendaria Hibla , il cui re Hyblon, concesse ai Megaresi di Lamis di stanziarsi in quel lembo del suo territorio sul quale essi poi fondarono la città di Megara Hyblea, prima della fondazione di Siracusa. Pensare che Ibla fosse a Melilli, come diceva l’Orsi, mi sembra assurdo. A Melilli non si è mai trovato un coccio di quest’età! La Hybla che dà il nome all’altipiano ibleo doveva per forza di cose essere Pantalica, perché Cassibile è di età successiva e ha probabilmente un’altra funzione. Questa è la zona meno rigida che guarda a mezzogiorno, riparata dai venti del Nord. Le case dovevano essere in gran parte di legno, perché era allora la cosa più economica di cui si disponesse. C’erano tanti boschi di querce qui intorno. In base alle tombe, doveva essere una città di un migliaio di abitanti che per quei tempi erano davvero tanti. Nella prima età del bronzo un grosso centro abitato non contava più di 200 anime.Tutto questo, però, si dovrebbe ricercare con degli scavi, condotti con enorme pazienza. Qui ci sono 20 centimetri di terra e, quindi, i muri saranno stati in pietra, senza calce, che con il lavoro agricolo, nei secoli successivi, sono spariti. Con molta pazienza si potrebbe trovare qualche fondazione di casa, il che ci darebbe l’idea con precisione, del posto esatto nel quale la città si è sviluppata. Per questo bisognerebbe riprendere sul serio gli scavi." Altra breve pausa. Bernabò Brea ora aveva allargato le braccia, quasi a voler raccogliere con il suo corpo tutto l'orizzonte. E proseguì, tutto d'un fiato.
"Guardate che spettacolo. Il dominio del re Hyblon doveva comprendere certamente tutto l’altopiano del monte Lauro e tutta la costa fra Augusta e Siracusa. Ma la popolazione doveva vivere in massima parte accentrata in Pantalica stessa. Io sono convinto che questa gente si è asserragliata qui di fronte all’invasione sicula e abbiamo come testimonianza la tradizione tramandataci da Ellanico che pone l’invasione sicula in Sicilia, tre generazioni prima della guerra di Troia. La data della guerra di Troia, secondo la tradizione classica, è il 1183 a.C. Tre generazioni prima sono 90 anni che ci portano al 1270. Se guardiamo tutte le ceramiche micenee trovate sulla costa , si fermano tutte al 1270 circa, il principio del Miceneo terzo B. E poi troviamo a contrada Maiorana di Buscemi, sulla cima del Monte Lauro, un vaso miceneo ancora del terzo B. Pantalica ha elementi del terzo C, dunque dovrebbe essere presente tra il 1200 e il 1100 a.C. Archeologicamente, arriviamo esattamente alla stessa data della invasione sicula. Penso che sia stato l’arrivo di nuove genti dalla Penisola italiana, che invadono e mettono a ferro e fuoco la Sicilia a obbligare gli abitanti della costa, di Tapsos in particolare, a barricarsi in fortezze naturali come questa, per vendere cara la pelle. E allora sorgono Pantalica, Disueri, la montagna di Caltagirone, la rocca di Paternò, il Sabbucina, tutti cocuzzoli inaccessibili.
Pantalica è stata il seguito della civiltà di Tapsos, fortemente influenzata da apporti micenei, e da contatti secolari con la Grecia. Da allora, quella civiltà va avanti per cinque secoli. Deve essere stata distrutta dai Siracusani in quella fase di espansione nel retroterra che culmina con la fondazione di Akrai nel 663 e di Casmene, 20 anni dopo, nel 643. Da allora , la leggendaria Ibla è diventata solo un grande cimitero."
Era quasi tramonto, il sole era basso, rosso, luminoso. Pantalica sembrava dolcemente calare dentro l’ombra della montagna.
Soffiava un venticello fresco, che, pian piano, raffreddava quel pomeriggio indimenticabile. Risalimmo ,lentamente, il costone, per raggiungere il pianoro. Bernabò Brea non correva più. Quel lungo e affascinante viaggio nella preistoria siciliana era finito. Non era stanco, ma forse in cuor suo era scontento di lasciare quel sito archeologico che lo aveva sempre affasciato enormemente. Tuttavia, esauriti i convenevoli, Bernabò Brea trovò il tempo per lanciare una sorta di "testamento ". “Io ho dei debiti nei confronti della storia. Ed ho il dovere di pagarli. Bisogna che prima di morire renda conto di tanti anni di ricerche condotte nei più disparati siti archeologici della Sicilia." Era la conferma della sua schiettezza, della sua vivida curiosità intellettuale, della sua grandezza. Mentre si allontanava, pensavamo che, in realtà, tutti i siciliani avrebbero dovuto sentirsi in debito con Luigi Bernabò Brea. L’archeologo.




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